Alla fine, il Supremo Tribunale
Federale del Brasile ha deciso, a maggioranza, che i condannati nel
più grande processo per corruzione che il paese ricordi – il
cosiddetto mensalão –
devono andare in prigione subito, senza attendere gli ulteriori
sviluppi del giudizio. I principali responsabili del sistema di
tangenti – tra i quali buona parte della vecchia dirigenza del
partito di Lula – si sono così consegnati alla giustizia, o sono
stati arrestati. Tutti, tranne uno. Henrique Pizzolato, ex direttore
del marketing del Banco do Brasil, condannato a 12 anni e sette mesi
e titolare, anche, di un passaporto italiano, sarebbe fuggito nel
nostro paese, probabilmente passando dal Paraguay.
In una lettera
lasciata al suo avvocato, Pizzolato motiva la sua decisione con
l'intento di non sottomettersi a un giudizio che definisce “di
eccezione”, e di ottenere dalla giustizia italiana un nuovo giudizio, non
sottoposto a pressioni mediatiche. Il prossimo passo dovrebbe essere,
probabilmente, una formale richiesta di estradizione da parte del
ministero della giustizia brasiliano, resa in questo caso più difficoltosa dalla doppia cittadinanza di Pizzolato (che quindi, a differenza di Battisti, è anche cittadino italiano).
Inutile
sottolineare i parallelismi con il caso di Cesare Battisti,
arrestato in Brasile e del quale l'Italia chiese l'estradizione.
Estradizione poi negata dal presidente Lula (ma non dalla giustizia
brasiliana), che interpretò il caso Battisti come un caso di
giustizia politica. Per un'ulteriore ironia della storia, colui che
allora difese Battisti difronte al Supremo Tribunal sostenendo la
tesi della condanna politica dell'ex membro dei PAC, l'avvocato Luís Roberto
Barroso, siede adesso dall'altra parte della tribuna, tra i
giudici dello stesso Supremo Tribunal che ha decretato l'arresto di
Pizzolato. Scritta la sceneggiatura dell'attivista politico di
sinistra che ottiene asilo da Lula, resta ora da scrivere quella, a
parti invertite, dell'accusato di corruzione che chiede asilo in
Italia.